I rapporti tra il delitto di estorsione ed il delitto di sequestro di persona a scopo estorsivo

Pubblicato il: 19/03/2023

Con la pronuncia n. 14019 del 25/11/2021, la I Sez. penale della Cassazione è ritornata su una questione di notevole interesse ed impatto pratico: il rapporto tra la fattispecie di estorsione ex art. 629 del c.p. e sequestro di persona a scopo estorsivo ex art. 630 del c.p.p.. Segnatamente, due soggetti venivano condannati in entrambe i gradi di merito per i delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione e di tentata estorsione per aver privato della libertà personale e minacciato un privato cittadino, dopo averlo attirato in un sottoscala impedendogli di uscire per un congruo periodo di tempo. Nel perpetrare la loro violenza, entrambe gli imputati minacciavano in concorso tra loro ex art. 110 del c.p. e ss. di "spezzare o mutilare gli arti della vittima" se quest’ultima non avesse proceduto a sottoscrivere alcuni documenti quali ad esempio un preliminare di cessione di attività commerciale ed una quietanza di pagamento di una somma a titolo di acconto.

Successivamente alla condanna, entrambe gli imputati proponevano ricorso per Cassazione contestando la qualificazione giuridica del fatto e, in particolare, la configurabilità del concorso tra i due reati in commento. In particolare, gli imputati articolavano la propria difesa su due poli. In primo luogo, evidenziavano che il reato di sequestro di persona non si era consumato perché non vi era stata una limitazione della libertà personale della vittima per un tempo apprezzabile e comunque superiore a quello strettamente necessario per attuare la condotta costrittiva mediante minaccia. In secondo luogo, evidenziavano che l'ingiusto profitto perseguito e conseguito non costituiva il corrispettivo della liberazione della vittima, ricorrendo pertanto la diversa fattispecie di estorsione, eventualmente anche in concorso con il delitto di sequestro di persona ex art. 605 del c.p.. Invero, quest'ultima, ove non avesse ceduto alle richieste degli stessi, non sarebbe stata privata della libertà personale, consistendo la minaccia rivoltale nella causazione di un male fisico.

Le censure sono state ritenute fondate dalla Corte di Cassazione che, muovendo da una ricostruzione storica della fattispecie penale di cui all’art. 630 c.p., sottolineava che la norma in esame tutela tanto la libertà personale quanto l'integrità del patrimonio della vittima. Gli Ermellini hanno, quindi, evidenziato che integra gli estremi del sequestro di persona a scopo di estorsione e non quelli del delitto di estorsione la condotta criminosa consistente nella privazione della libertà di una persona finalizzata a conseguire come prezzo della liberazione una prestazione patrimoniale, pretesa in esecuzione anche di un precedente rapporto illecito, posto che il delitto di cui all'art. 630 c.p. è un reato plurioffensivo, nel quale l'elemento oggettivo del sequestro viene tipizzato dallo scopo di conseguire un profitto ingiusto dal prezzo della liberazione. La sentenza impugnata è stata, dunque, annullata con rinvio, per verificare se le condotte, realizzate ed accertate nel caso concreto, integrino la fattispecie di sequestro di persona a scopo di estorsione, oppure il delitto di estorsione, a seconda dell'esistenza o meno di un rapporto sinallagmatico tra la pretesa ingiusta e la libertà personale della vittima, tenendo in considerazione anche la durata della privazione subita da quest'ultima.


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Il diritto fondamentale al mantenimento alle relazioni familiari del detenuto sottoposto a regime differenziato di cui all’art. 41 bis

Pubblicato il: 17/03/2023

Con la pronunzia n. 48956 del 28 ottobre 2022 (depositata in data 23 dicembre 2022), la Corte di Cassazione, sezione penale, ha ribadito la centralità del diritto del detenuto, sottoposto al regime differenziato di cui all' art. 41 della l. sull’ordinamento penitenziario al mantenimento delle relazioni familiari, pur se sottoposti al medesimo regime restrittivo. Trattasi, difatti, di diritto fondamentale, espressione della personalità del detenuto, il quale, sebbene tale, resta al contempo cives, e pertanto titolare di diritti.

All’interno della sentenza in esame, la giurisprudenza ha nuovamente chiarito che il diritto del detenuto alla preservazione delle relazioni familiari non è sacrificabile sull’altare della prevenzione: in altri termini, non è possibile per mere esigenze preventive (ossia, al fine di evitare condotte delinquenziali reiterate, attraverso l’ausilio dei familiari colloquianti) vietare al singolo detenuto, sebbene in regime carcerario speciale (ex art. 41 bis ord. Pen.), di continuare ad intrattenere le relazioni familiari. Il detenuto in regime speciale mantiene il diritto di vedere ed interloquire con i parenti più stretti, sebbene attraverso modalità di video sorveglianza controllate.

Secondo l'ultimo filone della giurisprudenza di legittimità, si afferma la necessità di operare un bilanciamento di interessi tra le esigenze preventive dello Stato e quelle personali del detenuto: in particolare, è comunque possibile sacrificare le esigenze personali del detenuto in nome della sicurezza collettiva; tuttavia, non è possibile dequotare le stesse completamente, a seguito della necessità di garantire la prevenzione della condotta penalmente rilevante (Cass. pen., sez. I, 11 giugno 2021, n. 29007).

Alla luce di suddette premesse, si deduce che la Corte di Cassazione, in tal sede, si pone in linea di continuità con un recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, il quale ribadisce il diritto del detenuto ex art. 41 bis Ord. Pen. ad intrattenere ogni forma di stretto rapporto familiare, tanto genitoriale quanto parentale (Cass. pen., sez. I, 24 giugno 2022, n. 31634). In particolare, se il detenuto è genitore, ha diritto di vedere e parlare con i figli, specie se minori. In particolare, per questi ultimi l'ordinamento garantisce il diritto di vedere e frequentare (sebbene secondo i limiti della detenzione) la figura genitoriale detenuta, al fine di non coltivare, e non interrompere, i rapporti familiari ([[2Cost]]).
Il detenuto conserva anche il diritto di vedere ed interloquire con i soggetti familiari stretti (genitori, fratelli e/o sorelle), sia se questi ultimi siano in stato di libertà, che di detenzione: la giurisprudenza di legittimità, in particolare, ad oggi riconosce il diritto del detenuto ex art. 41 bis Ord. Pen. ad interloquire anche con familiari sottoposti a medesimo regime carcerario, sia per via telefonica che de visu (Cass. pen., sez. I, 12 dicembre 2014, n. 7654).

Il riconoscimento del diritto alla continuazione dei rapporti familiari trova giustificazione anche nella voluntas legis, essendo che il paragrafo 16. 2 della Circolare dipartimentale del 2 ottobre 2017, in relazione ai detenuti sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41 bis Ord. Pen., dispone che “eventuali richieste di colloqui telefonici con altri familiari ristretti in regime di 41-bis e non, saranno generalmente accolte, salvo che dal parere non vincolante, richiesto alla competente DDA, emergano concreti e rilevanti elementi che ne sconsiglino l'effettuazione”. Pertanto, secondo la disposizione normativa, la direzione di istituto carcerario può concedere il colloquio dall’internato con i familiari, ovvero negarlo in caso di situazioni di pericolo, ovvero per ragioni special preventive, previo assenso della magistratura di sorveglianza, nonché della Direzione distrettuale antimafia.

La giurisprudenza di legittimità, pur riconoscendo, in suddette limitate forme, la continuità dei rapporti familiari dell'internato, pone a questi stringenti limiti procedurali: il detenuto ex art. 41 bis Ord. Pen., difatti, non è completamente libero di frequentare l’ambiente familiare, essendo comunque necessario, per esigenze preventive, controllare e monitorare le conversazioni tenute ([[27cost.]]). In particolare, se avvengono de visu (attraverso incontri ravvicinati), è necessario che nel luogo dei colloqui siano presenti gli addetti appartenenti alle Forze dell’ordine, i quali hanno l’obbligo di intervenire, ovvero informare il Pubblico ministero, in caso di movimenti sospetti e/o conversazioni ambigue. Anche nelle mere conversazioni telefoniche, che si svolgano a distanza, è necessario il controllo vocale della telefonata da parte del soggetto appartenente alla forma dell’Ordine, il quale avrà l’obbligo di comunicare eventuali messaggi in codice intercettati.


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L’usucapibilità del bene immobile validamente espropriato

Pubblicato il: 16/03/2023

Attraverso la pronuncia n. 651 del 12 gennaio 2023, le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione hanno confermato la possibilità per il proprietario espropriato, il quale abbia usufruito del godimento del bene immobile per un tempo utile a usucapirlo (art. 1158 del c.c.), di riacquisire la proprietà dello stesso per usucapione, pur in presenza di una valida espropriazione per pubblica utilità, operata ex ante dalla pubblica amministrazione.

Secondo il Supremo Consesso, pertanto, la notifica di un valido decreto di esproprio al proprietario effettivo del bene immobile non è requisito idoneo ad impedire l’esercizio del possesso ad usucapionem da parte dello stesso, qualora la Pubblica Amministrazione non sia entrata successivamente nel possesso materiale ed effettivo del bene immobile.

Al fine di comprendere pienamente la pronuncia in commento, è necessario operare brevi cenni all’istituto dell’usucapione.
Trattasi, in particolare, di un modo di acquisto a titolo originario della proprietà, mediante il possesso continuativo del bene immobile o mobile per un periodo di tempo determinato ex lege.
I requisiti per un valido esercizio dell’usucapio sono individuati all’interno dell’ art. 1158 c.c., in base al quale sono necessari: il possesso (non è sufficiente la mera detenzione) continuo, ininterrotto, pacifico e pubblico del bene in oggetto; l’esercizio di un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale (non sono suscettibili di usucapione, difatti, i diritti personali); la continuità nel possesso ininterrotto per un arco temporale pari a 20 anni (o nei diversi termini indicati dalla legge); l'intenzione dell’interessato di esercitare un potere sulla cosa, in buona o mala fede (non è necessario, in tal caso, la buona fede del possessore).
La contestuale presenza dei requisiti di cui all’art. 1158 c.c. consente al possessore di acquisire, per usucapione, la proprietà del bene: ciò in quanto l’ordinamento giuridico preferisce dare priorità ai soggetti che realmente e praticamente si sono, nel corso del tempo, occupati del bene mobile e/o immobile, mettendolo a frutto e ricavandone utilità naturali o sociali. Pertanto coloro che sin astratto risultano essere i legittimi proprietari del bene mobile e/o immobile, soccombono rispetto a coloro che, nella pratica, hanno sfruttato e reso fruttifero lo stesso.

Alla luce delle caratteristiche dell’usucapione, ci si iniziò ad interrogare in giurisprudenza circa la possibilità di applicare l’istituto in esame anche in merito ai beni immobili che, sebbene in astratto validamente espropriati, erano, in concreto, lasciati nel possesso degli originari proprietari. Difatti, non di rado (ancora oggi) accade che la pubblica amministrazione, intenzionata a dar vita ad un’opera o progetto, espropri un bene immobile altrui, senza, tuttavia, procedere alla successiva immissione in possesso per ritardi burocratici. Di tal guisa, il bene resta nelle mani del proprietario originario, il quale continua ad utilizzare lo stesso in qualità di legittimo possessore (ossia, con l’animus possidendi).

Pertanto, con la sentenza in esame, le Sezioni Unite hanno messo un punto fermo su una questione che, per anni, ha impegnato tanto la dottrina, quanto la giurisprudenza.
In materia di usucapibilità del bene immobile validamente espropriato, due erano gli orientamenti contrastanti.

Secondo un primo filone giurisprudenziale, invero, “il decreto di espropriazione è idoneo a far acquisire la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione di diritto o di fatto con essa incompatibile e, qualora il precedente proprietario o un soggetto diverso continuino ad esercitare sulla cosa un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, la notifica [o conoscenza] del decreto ne comporta la perdita dell’animus possidendi, conseguendone che, ai fini della configurabilità di un nuovo possesso ad usucapionem, è necessario un atto di interversio possessionis» (in particolare, si fa riferimento a: Cass. civ., sez. I, n. 6742 del 2014; Cass. civ., sez. II n. 23850 del 2018).

Secondo un secondo filone giurisprudenziale, “in tema di possesso ad usucapionem, tanto il trasferimento volontario quanto quello coattivo di un bene non integrano necessariamente, di per sé, gli estremi del constitutum possessorium, poiché – con particolare riguardo ai trasferimenti coattivi conseguenti ad espropriazione per pubblica utilità – il diritto di proprietà è trasferito contro la volontà dell’espropriato/possessore, e nessun accordo interviene fra questi e l’espropriante, né in relazione alla proprietà, né in relazione al possesso. Ne consegue che il provvedimento ablativo non determina, di per sé, un mutamento dell’animus rem sibi habendi in animus detinendi in capo al proprietario espropriato, il quale, pertanto, può del tutto legittimamente invocare, nel concorso delle condizioni di legge, il compimento in suo favore dell’usucapione (a ciò non ostando, tra l’altro, il disposto degli artt. 52 e 63 della L. n. 2359 del 1865) tutte le volte in cui alla dichiarazione di pubblica utilità non siano seguiti né l’immissione in possesso, né l’attuazione del previsto intervento urbanistico da parte dell’espropriante, del tutto irrilevante appalesandosi, ai fini de quibus, l’acquisita consapevolezza dell’esistenza dell’altrui diritto dominicale» (orientamento sposato, in particolare, da: Cass. civ., sez. II n. 5996 del 2014, n. 25594; Cass. civ., sez. I, n. 5293 del 2000).

Le Sezioni Unite, all’interno della sentenza in commento, hanno condiviso questo secondo orientamento, sia in relazione alle controversie soggette al regime previgente al T.U. degli espropri (D.L.vo 8 giugno 2001, n. 327), e sia in quelle soggette alle disposizioni del medesimo testo unico.


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Caso Cucchi: omicidio preterintenzionale ed idoneità delle cause sopravvenute ed eccezionali ad elidere il nesso causale

Pubblicato il: 14/03/2023

La Corte di Cassazione, V sezione penale, con la sentenza n. 18396 del 4 aprile 2022 (depositata in data 9 maggio 2022), ha dato risoluzione ad uno dei casi di cronaca giudiziaria più rielevanti degli ultimi anni, riguardante il giovane Stefano Cucchi, ucciso in cella dalle percosse degli addetti alla vigilanza carceraria.
In particolare, nel caso, di specie, la Corte di Cassazione escludeva l’interruzione del nesso causale tra la condotta degli agenti e l’evento morte, stante le omissioni del personale sanitario circa le cure sottoposte al giovane Cucchi leso: gli agenti carcerari, autori delle lesioni, rispondevano, così, di omicidio preterintenzionale, ex art. 584 del c.p.. Il comportamento omissivo del personale sanitario non rilevava, pertanto, quale concausa sopravvenuta idonea, ex se, a cagionare l’evento morte (ex art. 41 del c.p., comma 2), ossia ad interrompere il nesso causale originario tra condotta degli addetti carcerari e l’evento morte da questi non voluto.

Al fine di comprendere pienamente la decisione in esame, occorre una breve premessa in materia di concause sopravvenute.
Il codice penale vigente, all’interno dell’articolo 41 comma 2, prevede che “Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. In tal caso, se l'azione od omissione precedentemente commessa costituisce per se' un reato, si applica la pena per questo stabilita”. A differenza delle concause di natura concomitante o pregressa alla condotta del soggetto agente (le quali, secondo la dottrina e giurisprudenza maggioritaria rilevano unicamente sul piano della colpevolezza), le cause sopravvenute sono, ex lege, idonee ad elidere il nesso causale tra condotta ed evento qualora generino uno sviluppo atipico ed abnorme della serie causale (Cass. pen., sez. V, 19 ottobre 2021, n. 45241).
Sulla scia di questa premessa ermeneutica, nel caso di specie ci si chiedeva (alla luce della teoria avallata dalla difesa in giudizio) se la condotta omissiva dei medici circa la prestazione delle cure sanitarie (da intendersi quale prolungata carenza di alimentazione e di idratazione) potesse considerarsi, o meno, concausa sopravvenuta sufficiente ad elidere il rapporto causale tra la condotta di lesioni e percosse degli agenti penitenziari e l’evento morte non voluto (a titolo di omicidio preterintenzionale).

Nella fattispecie in esame, la Corte di Cassazione da una risposta negativa, non rinvenendo nelle omissioni del personale sanitario concause sufficienti ed autonome a determinare l’evento morte. Difatti, pur avallando la teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento in materia di concause sopravvenute, secondo il Supremo Consesso non era possibile ritenersi eliso il nesso causale, essendo che la condotta del personale sanitario non aveva creato un rischio eccentrico, abnorme, e non oggettivamente prevedibile al momento del perfezionamento della condotta di lesioni da parte dei soggetti agenti (Cass. pen., sez. IV, 25 febbraio 2020, n. 22691).
In particolare, secondo la Suprema Corte di Cassazione “il collegamento causale tra l’azione lesiva imputata e l’evento che ne è derivato non è interrotto dalla intermedia omissione della condotta che sarebbe stata in ipotesi idonea ad evitare la produzione dell’evento medesimo, qualora questa non costituisca un fatto imprevedibile ovvero uno sviluppo assolutamente atipico della serie causale. Tale omissione, ricorrendone le condizioni, può infatti costituire eventualmente il titolo per l’affermazione della concorrente responsabilità del soggetto inadempiente, mentre, nella fattispecie, le omissioni eventualmente imputabili al personale sanitario (e comunque solo genericamente evocate dal ricorrente), come il lamentato rifiuto della vittima di alimentarsi correttamente, non sono stati ritenuti sviluppi imprevedibili o atipici del decorso causale”.

Così che, il comportamento omissivo del personale sanitario può rilevare quale titolo autonomo di responsabilità colposa, ricorrendone le condizioni di fatto e di diritto.
In tale sede, il Supremo Consesso effettua anche precisazioni dogmatiche in tema di omicidio preterintenzionale, nonché circa il concorso di persone nel delitto di cui all’art. 584 del codice penale.
Quanto all’omicidio preterintenzionale, la Corte precisa che: “l’oramai consolidato orientamento di questa Corte per cui l’elemento soggettivo del delitto di omicidio preterintenzionale non è costituito da dolo e responsabilità oggettiva, né dal dolo misto a colpa, ma unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all’art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità di evento più grave nell’intenzione di risultato. Pertanto, la valutazione relativa alla prevedibilità dell’evento da cui dipende l’esistenza del delitto in questione è nella stessa previsione legislativa, essendo assolutamente probabile che da una azione violenta contro una persona possa derivare la morte della stessa”.

Con riguardo, invece, al concorso di persone nel reato de quo (in relazione alla partecipazione dei plurimi agenti nella condotta di lesioni e percosse), la Corte di Cassazione, sulla scia della pregressa giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., sez. V, 30 ottobre 2013, n. 12413), ci insegna che: “la volontà di concorrere non presuppone necessariamente un previo accordo o, comunque, la reciproca consapevolezza del concorso altrui, essendo sufficiente che la coscienza del contributo fornito all’altrui condotta esista unilateralmente, con la conseguenza che essa può indifferentemente manifestarsi o come previo concerto o come intesa istantanea ovvero come semplice adesione all’opera di un altro che rimane ignaro. Non solo, come ripetutamente evidenziato da questa Corte, è configurabile il concorso di persone nell’omicidio preterintenzionale quando vi è la partecipazione materiale o morale di più soggetti attivi nell’attività diretta a percuotere o ledere una persona senza la volontà di ucciderla e vi sia un evidente rapporto di causalità tra tale attività e l’evento mortale”.


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La scriminante dell’adempimento del dovere in caso di soccorso in mare di naufraghi

Pubblicato il: 13/03/2023

La Corte di Cassazione, con la sentenza del 13 settembre 2022, n. 2511 (depositata in data 20 gennaio 2023), è tornata a pronunciarsi sul tema della scriminante dell'adempimento del dovere (art. 51 del c.p.) in caso di soccorso in mare, escludendone l'ambito di applicazione in caso di mera attività di recupero in mare del naufrago, senza successivo primario soccorso post salvataggio, consistente nel garantire al naufrago un approdo in posto sicuro ("piace of safety").

In particolare, le fonti del diritto internazionale, sia consuetudinarie che pattizie, impongono la necessità di garantire al naufrago rinvenuto in mare completa assistenza, consistente non solo nell'immediato salvataggio (qualora questo risulti disperso), bensì anche nella successivo trasporto in luogo sicuro, affinchè gli sia prestata completa assistenza, anche sanitaria e burocratica. Secondo i diritto internazionale, difatti, non è sufficiente la mera attività di recupero in mare da parte dei capitani delle navi di passaggio, bensì è necessario anche che questi si attivino affinchè i naufraghi recuperati siano portati in luoghi sicuri, e possano ricevere l'assistenza umanitaria di cui necessitano. A vigilare sull'attività di recupero e salvataggio è anche la polizia marittima, la quale, controllando le coste nazionali, deve assicurarsi che non vi sia nessun disperso che abbia bisogno di aiuto: in quel caso, è immediato l'obbligo di avvisare la capitaneria locale, affinché il naufrago sia recuperato.

I principi in esame sono espressamente ribaditi nelle principali convenzioni internazionali in materia di tutela del mare, in particolare: la Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare ("SOLAS-Safety of Life at Sea"), redatta a Londra nel 1974, e poi successivamente ratificata in Italia con la legge n. 313 del 1980; la Convenzione UNCLOS delle Nazioni Unite sul diritto del mare, stipulata a Montego Bay nel 1982, e ex post recepita dall'Italia attraverso la legge n. 689 del 1994; la Convenzione SAR di Amburgo del 1979, successivamente poi eseguita dall'ordinamento giuridico italiano con la legge n. 147 del 1989, ovvero poi attuata con il D.P.R. n. 662 del 1994, la quale, al punto 3.1.9, dispone che: "Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall'Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile".
I principi generali in esame sono rinvenibili anche all'interno del diritto internazionale di fonte consuetudinaria, il quale entra, in qualità di fonte sovraordinata, all'interno dell'ordinamento giuridico italiano attraverso l'articolo 10 della Carta Costituzionale: tra i principi fondamentali riconosciuti, quale tutela minima dei diritti umani, vi rientra anche l'obbligo di ciascuno Stato di soccorrere i naufraghi in mare, a prescindere dalla loro cittadinanza (anche gli apolidi meritano di essere soccorsi in mare).
In particolare, recependo le fonti di diritto internazionale, le Linee Guida del Ministero dell'Interno hanno precisato che "un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale. Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative".

Anche l'ordinamento giuridico italiano riconosce il diritto di ciascuno di essere soccorso in mare in caso di pericolo: in particolare, è nel dovere di ciascun soggetto navigante garantire assistenza in caso di necessità, ovvero prestare primario soccorso ai soggetti che si trovano in estrema difficoltà. In generale, l'ordinamento nostrano scrimina ogni condotta illecita attuata al fine di recuperare soggetti in mare in stato di pericolo attraverso la causa di giustificazione di cui all'articolo 51 del codice penale: dunque, qualora sia necessario porre in essere fatti illeciti al fine di soccorrere un naufrago (si pensi, ad esempio, ai delitti di cui agli art. 336 del c.p. e art. 337 del c.p.), il comportamento dei soccorritori è scriminato, e pertanto non punito.
In tal guisa, l'ordinamento giuridico italiano opera un bilanciamento di interessi, favorendo il recupero dei soggetti in mare in luogo della punibilità dei soggetti soccorritori. Garantire l'aiuto umanitario minimo è, difatti, esigenza considerata prevalente rispetto alla necessità di applicare la sanzione penale. L'ordinamento giuridico, attraverso la causa di giustificazione in esame, rinuncia a garantire tutela penale al fatto illecito perfezionatosi, al fine di tutelare la sfera dei diritti umanitari.

Secondo la teoria generale in materia penale, le cause di giustificazione rendono un fatto penalmente rilevante lecito in ogni branca dell'ordinamento giuridico: le scriminanti, difatti, a differenza delle scusanti (mera esclusione della colpevolezza), nonchè delle cause di non punibilità in senso stretto (esclusione della sola punibilità), danno al fatto penalmente illecito una veste di liceità, trasformando quest'ultimo in attività non punibile penalmente.
Al fine di riconoscere una scriminante, dunque, l'ordinamento giuridico deve dapprima valutare il valore giuridico extrapenale meritevole di tutela, ovvero circoscrivere l'ambito di operatività della causa di giustificazione in presenza di requisiti stringenti.

In materia di soccorso in mare, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, sulla scia delle fonti di diritto internazionale, ha più volte statuito che la causa di giustificazione di cui all'art. 51 c.p. è riconoscibile nei casi in cui il soccorritore non solo si limiti a prestare il previo ausilio in mare al naufrago disperso, bensì si assicuri anche il suo successivo approdo in luogo sicuro, affinchè ricevi ogni forma assistenziale di stampo umanitario.
I principi in esame sono stati riaffermati dal Supremo Consesso nella celebre sentenza n. 6626 del 16 gennaio 2020 (famoso caso "Rackete"), ove, nel merito, la Corte di Cassazione riconosceva la scriminante di cui all'articolo 51 c.p., non punendo penalmente la condotta di resistenza a pubblico ufficiale (ex art. 336 c.p.) attuata dal capitano della nave al fine di porre in salvo naufraghi dispersi: ciò in quanto il soggetto agente non solo si prestava ad offrire ai naufraghi soccorsi previo sostegno materiale, permettendo agli stessi di salire sulla nave, bensì in quanto aiutava gli stessi trasportandoli sul territorio italiano, luogo sicuro ove poter ricevere assistenza.

Alla luce delle coordinate tracciate, la Corte di Cassazione, all'interno della sentenza in esame, ha escluso la causa di giustificazione di cui all'art. 51 c.p. in caso di mera attività di mero soccorso e recupero in mare, senza che a questa faccia seguito un concreto trasporto in posto sicuro del naufrago disperso. Nel caso di specie, difatti, il comandante della nave aveva prestato soccorso ad altra nave, in balia di eventi metereologici avversi, senza tuttavia aiutare la stessa ad attraccare in posto sicuro: suddetta condotta, difatti, è stata considerata irrispettosa, da parte del giudice, dei diritti fondamentali di stampo umanitario, nonchè violativa delle Convenzioni di diritto internazionale in materia. L'attività di soccorso, difatti, secondo la pronunzia in esame, non può limitarsi al mero salvataggio dei naufraghi sulla nave, dovendo essi essere portati anche in luogo terrestre sicuro, al fine di poter richiedere e ricevere protezione internazionale (Convenzione di Ginevra del 1951).


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La rilevanza del contatto sociale qualificato nel rapporto tra il privato e la P.A.

Pubblicato il: 09/03/2023

Le Sezioni Unite della suprema Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 8236/2020, hanno contribuito ad acuire il contrasto con la giurisprudenza amministrativa in tema di natura giuridica della responsabilità della pubblica amministrazione per lesione del diritto all'affidamento del privato. Sul punto, prima di analizzare nel merito l'articolato impianto argomentativo degli Ermellini, appare opportuno premettere un breve excursus di carattere generale sul sistema delle fonti delle obbligazioni. Contrariamente al codice civile de 1965, il nuovo testo del 1942 si è ispirato in materia di fonti delle obbligazione alle c.d institutiones di Gaio. Nel dettaglio, le obbligazioni discendono dal contratto, ex art. 1321 del c.c., da fatto illecito, ex art. 2043 del c.c. e da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità all'ordinamento giuridico (art. 1173 del c.c.). Secondo l'opinione della dottrina, all'interno di tale categoria generale (ispirata alle c.d. varie causarum figurae di Gaio) rientrerebbero tutte quelle fattispecie non espressamente codificate ma idonee a produrre un rapporto obbligatorio tra i paciscienti. All'interno di tale genus, la giurisprudenza ormai maggioritaria colloca anche il c.d. contatto sociale qualificato; si tratta in particolare di un rapporto qualificato tra due soggetti (es. medico e paziente) che si caratterizza per l'affidamento di un soggetto più debole alle "cure" di un soggetto altamente qualificato tale che sorge, per effetto di tale contatto, un vero e proprio rapporto giuridico parificabile ad una obbligazione. Sulla natura giuridica della obbligazione derivante da contatto sociale si è a lungo discusso e, alla fine, la giurisprudenza sembra aver aderito a quell'orientamento che ritiene inquadrabile il rapporto qualificato nell'alveo della responsabilità contrattuale, ex art. 1218 del c.c., con tutto ciò che ne consegue in punto di prescrizione ed onere probatorio.

Ciò premesso, è possibile soffermarsi decisum delle Sezioni Unite che calano la problematica del "contatto sociale qualificato" all'interno del rapporto tra il privato e la Pubblica Amministrazione. A tale uopo, le S.U. hanno stabilito che spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine alla domanda di risarcimento del danno derivante da lesione dell'affidamento nella correttezza del mero comportamento della P.A., precisando che la natura giuridica della responsabilità della P.A. è contrattuale da contatto sociale. Segnatamente, le S.U. hanno ritenuto che la P.A. nello svolgimento della propria attività amministrativa e dunque nel perseguimento del pubblico interesse deve comportarsi non solo conformemente alle norme di dirittu pubblico ma anche a quelle generali dell'ordinamento civile, che impongono agli attori di diritto privato di agire con correttezza ex art. 1175 del c.c.. La violazione di tali regole, cui anche la P.A. è tenuta ad obbligarsi, non da vita ad una invalidità provvedimentale ma alla responsabilità per la regola di condotta violata. Tale responsabilità, però, non può essere ricondotta nel paradigma extracontrattuale in quanto la c.d. responsabilità del passante non è idonea a leggere intimamente il rapporto tra P.A. e privato che invece rappresenta una fattispecie complessa idonea a fondare l'obbligazione della P.A. a comportarsi correttamente ed il corrispondente diritto di credito del privato a pretendere tale comportamento.

In punto di giurisdizione, l'inevitabile conclusione del ragionamento delle S.U. è la giurisdizione del giudice ordinario nel caso in cui il privato lamenti la lesione dell'affidamento serbato sulla correttezza della P.A. atteso che si tratta di un comportamento "mero" a cui non è riconducibile neanche l'ombra di un potere pubblicistico.


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I rapporti tra lo sport ed il diritto penale: quando l’illecito sportivo diventa un reato

Pubblicato il: 08/03/2023

Con la sentenza n. 3284 del 31 gennaio 2021, la Quarta Sezione della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su un tema di grande impatto non solo pratico ma anche sociale. Prima di affrontare il percorso logico-giuridico espresso dagli Ermelllini, appare opportuno riepilogare brevissimamente la vicenda fattuale evidenziandone al contempo i nodi critici.

Segnatamente, durante partita amatoriale di calcio, a causa di un particolare momento di concitazione agonistica un “tackle” di un giocatore eseguito al precipuo scopo di evitare una manovra di contropiede cagionava ad un avversario plurime fratture scomposte agli arti inferiori. All’esito di dovuti accertamenti medici, alla persona offesa veniva prognosticata una incapacità di attendere alle ordinarie mansioni per una durata superiore a quaranta giorni. A prescindere dai risvolti civilistici della vicenda, la persona offesa denunciava l’autore dell’intervento – reputato oltre il normale illecito sportivo sanzionato con i c.d. “cartellini– che per l’effetto veniva condannato dal Tribunale di Lucca, con sentenza confermata in grado di appello, reputando i giudici integrati gli estremi del delitto di lesioni personali colpose ex art. 590 del c.p.. Ciò posto, in punto di diritto, la Corte di Appello ha ritenuto che la condotta dell’imputato non fosse giustificata dall’esercizio dell’attività sportiva ex art. 51 del c.p., atteso che determinate tipologie di “scivolata” sono vietate nel calcio a cinque. Per l’effetto, il giudice di seconde cure ha afferrmato che quel tackle andava al di là del mero gesto atletico e dunque non rientrasse nella c.d. area di rischio consentito: ovvero quel perimetro in cui l’ordinamento si accolla le vicende lesive causate nell’alveo di attività pericolose ma autorizzate perché socialmente utili.
La vicenda ha rinvenuto il proprio epilogo nel pronunciamento della giurisprudenza di legittimità che, intervenuta sul tema, ha fornito interessanti spunti circa la legittimità della c.d. scriminante sportiva ormai pacificamente riconosciuta come tale dalla precedente giurisprudenza, stante la prevalenza dell’interesse generale della collettività a che venga svolta attività sportiva rispetto all’interesse individuale relativo all’integrità fisica.

Orbene, la sentenza in commento si caratterizza per costituire un importante punto di svolta della configurazione dell’attività sportivo-calcistica nell’alveo del diritto penale. Secondo gli Ermellini, l’impostazione tradizionale che fonda il discrimen fra illecito sportivo ed illecito penale sull’operatività del c.d. rischio consentito non appare pienamente soddisfacente perché essa implica che l’attività sportiva costituisca una causa di giustificazione, laddove, invece, essa è attività lecita e regolata dalla normazione di ciascun specifico settore disciplinare, anche con riferimento al livello agonistico più o meno elevato.
La soluzione al problema de quo, pertanto, deve essere individuata nello slittamento del livello di analisi dal piano della antigiuridicità a quello della colpevolezza. L’accertamento condotto su questo piano permette di ragionare – soltanto dopo aver acclarato che la violazione della norma cautelare sia stata volontaria – in termini di colpevolezza dolosa ovvero colposa; in tale ultimo caso, costituisce passaggio imprescindibile la verifica della prevedibilità in concreto dell’evento dannoso. In sintesi, per aversi responsabilità penale, in omaggio all’art. 27 Cost. co. I, è necessario che l’azione possa prevedibilmente, con valutazione ex ante, causare il danno (concretizzazione del rischio), laddove l’assenza di prevedibilità non comporta colpevolezza se la norma disciplinare violata ha un fine diverso da quello di evitare l’evento dannoso (causalità della colpa).


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Il regime dell’invalidità delle delibere condominiali

Pubblicato il: 07/03/2023

Con la pronuncia n. 9838 del 2021, le Sezioni Unite della Cassazione sono state chiamate a districare un dibattito che da anni sollecita non pochi dubbi tra gli interpreti: l'invalidità delle delibere condominiali. Prima di esaminare nel merito l'approdo a cui è giunta la Suprema Corte, appare opportuno precisare che, come è noto , all'interno del Titolo II del Libro IV del c.c., la nullità ex art. 1418 del c.c. rappresenta il paradigma generale dell'invalidità; l'annullabilità, ex art. 1425 del c.c. e ss. è invece individuata in casi tipici e tassativi, non essendo ammessa una forma di annullabilità c.d. virtuale. Ciò tuttavia non deve portare, in omaggio ad un apodittico principio di simmetria giuridica, a pensare che il paradigma dell'invalidità contrattuale sia speculare ed assimilabile a quello di altri atti o negozi giuridici, dovendo l'interprete sempre tenere conto del contesto in cui operano i paciscienti e dei principi generali che governano quella particolare materia.

Ciò posto, il problema è stato affrontato proprio in materia di delibere condominiali perchè l'art. 1137 del c.c., nonostante faccia esplicito riferimento alla possibilità per i condomini dissenzienti di richiedere l'annullamento della delibera condominiale a decorrere da trenta giorni rispettivamente decorrenti dalla deliberazione o dalla comunicazione (se il condomino era dissenziente), non indica precisamente quali siano i motivi di annullamento ovvero quelli di nullità. Nel districare i dubbi sollevati dall'ambiguità normativa, le Sezioni Unite, enunciando un importantissimo principio di diritto, hanno affermato che sono affette da nullità le delibere condominiali che mancano ab origine degli elementi costitutivi essenziali; che hanno un oggetto impossibile in senso materiale o giuridico e da ultime quelle che posseggono un contenuto illecito in quanto contrastano con norme imperative, con l'ordine pubblico e con il buon costume. Al di fuori di questo preciso perimetro, si riespande il regime dell'annullabilità sicchè le deliberazioni assembleari adottate in violazione di norme di legge o del regolamento condominiale sono semplicemente annullabili e la relativa azione deve essere esercitata nei modi e nei termini di cui all'art. 1137 del c.c..

Per l'effetto di tale pronuncia, le Sezioni Unite prendono dunque posizione nella materia de quo: a differenza del congegno contrattuale ex art. 1321 del c.c., è l'annullabilità a costituire il paradigma generale dell'invalidità mentre le ipotesi di nullità sono circoscritte a forme residuali in cui probabilmente ab origine è inconfigurabile il concetto fenomenico stesso di delibera. Partendo da tale principio di diritto, la Corte ha per l'effetto risolto la questione sottoposta al suo scrutinio avente ad oggetto un giudizio di opposizione ad un decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali. Per l'effetto, si afferma che, in tali ipotesi, il giudice potrà sindacare la nullità della delibera assembleare sia ove la stessa sia stata dedotta dalla parte sia ove rilevata di ufficio e che, il relativo giudizio, potrà estendersi anche all'annullabilità purchè sia stata proposta in via di domanda riconvenzionale nell'atto di citazione di opposizione. Si segnala al lettore che tale pronunzia non solo è importante per l'indubbia portata definitoria del regime dell'invalidità delle delibere assembleari, ma risulta apprezzabile anche in punto di analisi economica del diritto. Segnatamente, la sentenza è espressione di tutela del principio di economia processuale, ritenendo ammissibile la domanda riconvenzionale di annullabilità ne medesimo giudizio, laddove un precedente indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione aveva ritenuto possibile solo in un separato giudizio.


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Il sindacato del giudice sul contratto di assicurazione c.d. a richiesta fatta

Pubblicato il: 06/03/2023

Con la pronuncia n. 12908, la III Sez. Civile della Corte di Cassazione inserendosi nel consolidato filone giurisprudenziale inaugurato dalle precedenti Sezioni Unite ha confermato la compatibilità del meccanismo assicurativo costruito on claims made basis con il disposto dell'art. 2965 del c.c. nella parte in cui commina la nullità delle convenzioni volte ad aggravare l'esercizio del diritto di una delle parti del rapporto giuridico. Contrariamente a quanto affermato dagli Ermellini in un proprio precedente (cfr. sent. n. 8894 del 13/05/2020), se è vero che la clausola c.d. a richiesta fatta che aderisce al contratto di assicurazione ex art. 1882 del c.c. consente o preclude l'operatività della garanzia in dipendenza di un evento futuro ed incerto quale l'iniziativa di un terzo estraneo al contratto, ciò risulta perfettamente compatibile con la struttura tipica del contratto di assicurazione contro i danni.

Per meglio comprendere il decisum della Suprema Corte, appare opportuno ricostruire brevemente il dibattito giurisprudenziale circa l'ammissibilità di tale modello assicurativo. Secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, recentemente avallato da due pronunce delle S.U., il modello di assicurazione della responsabilità civile ex art. 1917 del c.c. è tendenzialmente improntato al sistema americano del c.d. loss occurrence e consente alla copertura assicurativa di operare per tutte le condotte generatrici di domande risarcitorie insorte nel periodo di durata del contratto, indipendentemente dalla data della richiesta risarcitoria. Tale contratto tipico, tuttavia, si è dimostrato inadeguato a gestire le problematiche sollevate dai c.d. danni lungolatenti ed ha comportato il fallimento di molte compagnie assicurative costrette a risarcire danni che pur avendo la loro scaturigine nel periodo di copertura della polizza si sono manifestati solo molti anni dopo, impedendo all'assicuratore di accantonare il denaro per risarcire le eventuali perdite (es. mesotelioma pleurico). A tale esigenza risponde il modello assicurativo c.d. a richiesta fatta che, tipologicamente, si inquadra all'interno dell'art. 1322 del c.c. che consente alle parti di determinare il contenuto del contratto liberamente. Per l'effetto, il contratto assicurativo on claims made basis si caratterizza per il fatto che generalmente la copertura assicurativa è condizionata alla circostanza che il sinistro venga denunciato nel periodo di vigenza della polizza assicurativa; detta clausola, a sua volta, può essere pura, se la copertura assicurativa è condizionata solo alla circostanza che il sinistro venga denunciato nel periodo di vigenza della polizza, indipendentemente dalla data di commissione del fatto illecito; oppure spuria, se la copertura assicurativa è condizionata alla circostanza che sia la denuncia sia il fatto illecito intervengano nel periodo di efficacia del contratto.

Quanto al c.d. test di "meritevolezza" degli interessi perseguiti ex art. 1322 del c.c. comma II, la Cassazione ha ormai confermato con orientamento consolidato che il contratto de quo non incide sulla causa astratta del contratto di assicurazione poichè persegue comunque l'obiettivo di indennizzare il rischio dell'impoverimento del patrimonio dell'assicurato. Tra l'altro, si segnala che tale archetipo contrattuale è molto diffuso non solo in ambito internazionale ma soprattutto nel campo sanitario, dove ha trovato espressa menzione grazie alla legge Gelli-Bianco. Le conseguenze in punto di diritto da siffatta qualificazione giuridica appaiono a questo punto logiche: il modello assicurativo on claims made continua a collocarsi nell'area della tipicità e per l'effetto non necessita di un test circa la meritevolezza degli interessi perseguiti. Tuttavia, la stessa analisi è imposta al giudice attraverso lo strumento della causa in concreto ex art. 1325 del c.c. n.2 visto che il giudice potrà sindacare qual è lo scopo pratico e concreto del negozio ovvero la sintesi degli interessi che lo stesso è diretto a realizzare.

In conclusione, la pronuncia in commento si caratterizza per contribuire a rafforzare quel filone giurisprudenziale che vede nel giudice l'arbitro del sinallagma genetico del contratto potendo, attraverso il prisma della causa in concreto, accertare se vi sia stato uno squilibrio giuridico tra rischio assicurato e premio pagato e nel caso dichiarare nulla la pattuizione nella parte in cui rende più gravoso l'esercizio del diritto da parte dell'assicurato. Ciò non può però avvenire aprioristicamente come è accaduto nella pronuncia in commento, poichè rispetto all'art. 2965 del c.c. occorrerà valutare nel caso concreto se vi operi il suddetto squilibrio o se il contratto appaia adeguato a perseguire gli interessi che le parti hanno programmato nel contratto.


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Il rapporto tra gli affetti ed il diritto penale: l’art. 384 c.p.

Pubblicato il: 05/03/2023

Con la rivoluzionaria pronuncia n. 10381 del 2021, le Sezioni Unite della Cassazione hanno inaugurato un nuovo orientamento giurisprudenziale favorevole all'estensione analogica delle c.d. scusanti. Prima di esaminare nel merito le ragioni che hanno portato gli Ermellini a sconfessare il precedente orientamento giurisprudenziale, appare opportuno ad avviso di chi scrive, senza alcuna pretesa di esaustività, premettere al tema un brevissimo inquadramento di tipo sistematico-generale.

Nell'alveo delle c.d. cause di esclusione della punibilità, terminologia invero a-tecnica adoperata dal legislatore del 1930 all'art. 59 del c.p., la dottrina è solita annoverare una serie di istituti, eterogenei per disciplina e ratio. In particolare, si iscrivono all'interno di questo genus, le c.d. scriminanti o cause di giustificazione, le quali permettono all'interesse sotteso alla norma penale di "prevalere" rispetto a quello di cui è portatore il soggetto agente e per l'effetto di rendere lecito il "fatto scriminato" in tutto l'ordinamento. Non a caso, il legislatore si esprime nell'art. 54 del c.p. in termini di indennizzo e non di risarcimento del danno. Oltre alle scriminanti, si annoverano nel genus delle cause di esclusione della pena le c.d. cause di non punibilità in senso stretto. Queste operano a fronte di un fatto che rimane tipico e colpevole (o tipico, antigiuridico e colpevole nella prospettiva tripartita del reato) ma precludono la punibilità per ragioni di opportunità politica (es.art. 649 del c.p.). Da ultimo, il codice prevede nelle cause di esclusione della punibilità le c.d. scusanti. Si tratta di circostanze tipiche e tassativamente individuate dal legislatore che danno rilievo alla umana fragilità e che comportano l'inesigibilità di un comportamento umano conforme al diritto penale. Come anticipato, la summenzionata distinzione non rappresenta un mero esercizio dogmatico o di stile perchè le singole cause di esclusione della punibilità sottostanno ad una differente disciplina. Peculiare rilievo assume, tra queste, il valore dell'analogia che, rispetto alle circostanze scusanti, è tendenzialmente stata esclusa dalla giurisprudenza e dalla dottrina maggioritaria. Ciò almeno fino alla pronuncia in commento di cui ora è possibile apprezzarne le motivazioni.

Sul punto, secondo l'orientamento dominante ante S.U., la scusante ex art. 384 c.p. era invocabile esclusivamente da parte di chi abbia posto una fattispecie delittuosa per evitare un grave nocumento alla libertà o all'onore di un prossimo congiunto, nozione che il codice penale definisce con apposita norma (art. 307 c.p.). Le ragioni poste a fondamento del consolidato orientamento giurisprudenziale si rinvengono nella diversità tra il modello familiare imperniato sul matrimonio, protetto ex art. 29 Cost. e quello fondato sulla convivenza non formalizzata (art. 2 Cost.), che si basa sul affectio e non garantisce vincoli di stabilità essendo revocabile in qualunque momento. Per effetto di tale diversità, la Corte Costituzionale ha giudicato compatibile con la Costituzione il differente regime di scusabilità dell'art. 384 c.p., atteso anche che, la natura giuridica della scusante in questione, ne impediva una estensione analogica in quanto norma eccezionale.

L'impianto argomentativo di tale orientamento della Cassazione è stato completamente sconfessato dalle Sezioni Unite. La soluzione adottata, in particolare, prescinde da valutazioni di ordine politico circa la pacifica ammissibilità di un regime differenziato per la c.d. famiglia legittima e la convivenza non formalizzata. L'estensione ai conviventi more uxorio, infatti, è il frutto di una argomentazione puramente di carattere penale in quanto occorre, a detta delle S.U., rimeditare la natura giuridica della norma in questione in quanto appare ictu oculi espressione del supremo principio di colpevolezza, art. 27 Cost. comma I. Corollario applicativo di tale principio sarebbe quello di inesigibilità della condotta conforme al precetto penale, di cui l'art. 384 c.p. sarebbe espressione. In particolare, il convivente more uxorio vive lo stesso dissidio interiore che vive il congiunto: adempiere al precetto penale oppure aiutare una persona affettivamente legata ad evadere dalle conseguenze imposte dalle norme penali. Come statuito da autorevole dottrina, si tratta di casi in cui l'ordinamento non se la sente di incrudelire con la sanzione penali sicchè appare razionale e conforme ai principi summenzionati l'estensione analogica anche al convivente more uxorio della scusante prevista per i soli congiunti dall'art. 384 c.p.


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