Pubblicato il: 22/09/2024
Come affrontare tale condotta? È lecito licenziare in tali casi un dipendente?
Sul tema, con l’ordinanza n. 10640/2024, la Corte di Cassazione ha ribadito l’indirizzo – già espresso in più occasioni – secondo cui lo “scarso rendimento”, in quanto indice di una prestazione inadeguata in termini quantitativi e qualitativi, costituisce un’ipotesi di recesso del datore per notevole inosservanza degli obblighi contrattuali del prestatore, che, a sua volta, si pone come specie della risoluzione per inadempimento, prevista dagli artt. 1453 e seguenti del codice civile.
Quali i fatti dedotti in giudizio?
Un lavoratore aveva contestato in tribunale il licenziamento per giustificato motivo oggettivo che gli era stato inflitto a causa delle sue frequenti assenze per malattia, le quali avevano influito negativamente sull’organizzazione aziendale e sulla produzione del settore in cui era impiegato. La Corte d'Appello ha accolto il ricorso del lavoratore, dichiarando illegittimo il licenziamento in quanto avvenuto prima del superamento del periodo di comporto.
Ma cosa s'intende per periodo di comporto?
Si tratta del periodo massimo di non lavoro dovuto a malattia o infortunio, nel quale il datore di lavoro non può procedere al licenziamento. Trascorso tale periodo, è possibile recedere dal contratto. La disposizione è contenuta all'interno dell'art. 2110 del codice civile.
Ebbene, la Cassazione – confermando la decisione di merito – ha preliminarmente sottolineato che il licenziamento per "scarso rendimento" rappresenta un caso di recesso da parte del datore per grave inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore. Tuttavia, secondo la Suprema Corte, in un contratto di lavoro subordinato il dipendente non è tenuto a garantire il raggiungimento di un risultato specifico, bensì a mettere a disposizione del datore il proprio impegno e le proprie energie, nei modi e nei tempi stabiliti dal contratto. Pertanto, il mancato raggiungimento di un obiettivo non costituisce, di per sé, un inadempimento.
In particolare la Cassazione evidenzia che, nel contratto di lavoro subordinato:
- il lavoratore non è obbligato al raggiungimento di un risultato prefissato;
- il lavoratore è obbligato alla messa a disposizione del datore di tutte le proprie competenze, conoscenze, energie, nei modi e nei tempi stabiliti dal contratto collettivo (CCNL);
- il mancato raggiungimento del risultato stabilito non costituisce di per sé inadempimento, dato che si tratta di lavoro subordinato e non dell’obbligazione di compiere un’opera, un servizio o la realizzazione/compimento di un progetto (tipico del lavoro autonomo).
I giudici hanno, poi, precisato che, se esistono parametri per valutare se la prestazione lavorativa è stata eseguita con la diligenza e professionalità medie richieste per le mansioni affidate, un significativo discostamento da tali standard può essere considerato un segnale di non corretta esecuzione della prestazione. In tali casi, può essere avviato un procedimento disciplinare che, in base alla gravità, può culminare in un licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo.
Sulla base di queste considerazioni, la Suprema Corte ha respinto il ricorso della società, confermando l’illegittimità del licenziamento impugnato.
In definitiva – ad avviso dei giudici di legittimità – per poter legittimamente licenziare un lavoratore per scarso rendimento, è necessaria la contemporanea sussistenza di due presupposti che, in caso di contestazione, devono essere dimostrati in giudizio dal datore di lavoro:
- il licenziamento deve, innanzitutto, fondarsi su un elemento di carattere oggettivo, vale a dire l’esistenza di una notevole sproporzione tra i risultati conseguiti e gli obiettivi assegnati. Tuttavia, la valutazione di tale aspetto non deve essere effettuata in astratto, bensì utilizzando quale parametro un rendimento concretamente esigibile, che tenga conto del rendimento medio registrato da altri dipendenti in analoghe funzioni;
- è necessario che la sproporzione tra i risultati attesi e quelli conseguiti sia imputabile al lavoratore, ovvero frutto di un colpevole e negligente inadempimento degli obblighi contrattuali gravanti sul lavoratore e non sia, invece, ascrivibile all’organizzazione del lavoro o ad altri fattori (Cass. 19 settembre 2016, n. 18317).
Vai alla Fonte